La teoria della macchina rossa e il mito della comunicazione giusta
Un podcast mi ha fatto venire voglia di dire qualcos’altro sulla sinistra e sulla sua incapacità (o impossibilità?) di parlare al mondo contemporaneo. Poi le cose che ho ascoltato, letto e visto.
La teoria della macchina rossa non esiste. Voglio dire: non è una teoria, non l’ha formulata nessuno in particolare. È piuttosto un’idea, sicuramente sensata, che rimbalza di social in social - io, ad esempio, ho trovato post al riguardo su Facebook e su LinkedIn - e che, proprio perché abbastanza credibile, a un certo punto ha attecchito. L’ha fatto anche con me, tanto che, quando i fatti confermano le mie opinioni - o meglio, quando ‘pare’ che i fatti confermino le mie opinioni -, mi dico subito «Occhio, ché la teoria della macchina rossa è sempre dietro l’angolo».
Perché è questa, in fondo, la teoria della macchina rossa: ci accadono delle cose, su quelle cose ci facciamo un’opinione e, da quel momento in poi, tutto quello che ci accade tende a confermare l’opinione che ci siamo fatti. In psicologia, ambito decisamente più affidabile dei post che girano su Facebook e LinkedIn, si chiama bias di conferma ed io ne sono stato vittima questa settimana, dopo avervi inviato la newsletter che parlava, tra le altre cose, delle cavie di Elon Musk.
A farmi cadere nella trappola è stato Matteo Bordone, che, oltre a essere la voce di Tienimi Bordone, podcast per abbonate e abbonati del Post, è anche il vero golden boy del quotidiano online. Prendo in prestito l’espressione “golden boy” dallo stesso Bordone, che la utilizza per riferirsi a Francesco Costa, direttore del Post, per l’enorme apprezzamento che raccoglie tanto online quanto offline. Lungi da me voler mettere in competizione due professionisti straordinari, ma soprattutto far passare per serio ciò che sto scrivendo, quel che voglio dire è che Costa ha sicuramente costruito un’immagine di serietà e allo stesso tempo di accessibilità del giornale che dirige, ma la capacità di raccontare temi complessi con estrema semplicità e di far emergere tutta la complessità delle cose semplici, be’, quella è la grande dote di Bordone.
Sto divagando un po’, lo ammetto, ma il mio intento era quello di parlarvi dell’episodio del 28 gennaio di Tienimi Bordone, dal titolo “La pallina”, in cui Bordone descrive una scena avvenuta durante la visita del circo Rony Roller a Papa Francesco. Ogni anno, per il suo compleanno, il Papa accoglie bambine e bambini (non fate battute), rifugiati, ma anche rappresentanti di organizzazioni che offrono momenti di intrattenimento. Nel 2023 è stata la volta, per l’appunto, del circo Rony Roller, che nell’Aula Paolo VI del Vaticano ha presentato un numero con un cane addestrato e una pallina.
Alla fine dell’esibizione il Papa raccoglie la pallina e, tra le risate generali, la lancia al cane, e questo gesto dà l’assist a Bordone per raccontare come le figure istituzionali usino la simpatia per stemperare la seriosità che le contraddistingue agli occhi del pubblico. Ma il vero golden boy del Post - e finalmente torniamo alla teoria della macchina rossa - non si ferma qui e mette a confronto l’approccio di Papa Francesco con quello della segretaria del Partito Democratico Elly Schlein, che tende invece a mantenere un atteggiamento impettito, a usare un linguaggio da manuale universitario e a scendere con fatica dal piedistallo del suo ruolo politico.
Va detto che l’analisi di Bordone è piuttosto severa nei confronti di Schlein, che in più di un’occasione ha cercato di scrollarsi di dosso l’immagine eccessivamente istituzionale che la caratterizza, ma sicuramente rilancia il tema del quale ho parlato nella scorsa newsletter: eccola, la macchina rossa; eccola, l’incapacità della sinistra di dialogare con il mondo contemporaneo.

Il mito della comunicazione giusta
Incapacità o impossibilità? L’ultima volta ci siamo lasciati con questa domanda, alla quale, vista la complessità, avrei preferito non rispondere, ma lo spunto di Bordone è troppo interessante per lasciarlo cadere. Bordone, infatti, mantiene la questione entro i confini dell’incapacità, anzi, la ridimensiona sostenendo che la sinistra italiana non è capace di usare lo strumento della simpatia. Questa critica non è nuova: dall’uomo della strada all’esperta di comunicazione politica, spesso si sente dire che, dove la destra aggancia l’elettorato grazie a un tono informale, la sinistra lo allontana trasmettendo un’immagine impettita, se non addirittura carica di risentimento verso un bersaglio indefinito.
Quel che temo, però – e sono abbastanza certo che Bordone condivida questa preoccupazione –, è che l’aspetto comunicativo rappresenti una parte infinitesimale della frattura tra la sinistra e il mondo contemporaneo. Sì, il mondo contemporaneo, perché a rendere il quadro ancora più critico è il fatto che questa frattura non riguarda solo l’Italia, ma si manifesta su scala globale: tra i primi dieci paesi con il PIL più alto dell’Unione Europea, otto sono governati dalla destra o vedono una crescita dei consensi verso partiti di destra, quando non di estrema destra (basti pensare alla Germania, dove AfD continua a guadagnare terreno nei sondaggi). Tutto questo senza contare che la nazione più potente del mondo ha eletto alla presidenza uno dei repubblicani più estremisti, che questa volta, a differenza del 2017, dispone della maggioranza sia alla Camera che al Senato.
Stiamo assistendo, insomma, al trionfo sempre più evidente di un’ideologia conservatrice e reazionaria, e in questo processo la comunicazione, l’immagine, la capacità di suscitare simpatia giocano un ruolo piuttosto marginale, così come, in generale, lo stesso lato dell’offerta politica. A guidare il cambiamento, infatti, è la domanda: sono i cittadini e le cittadine che, di fronte a un mondo in continua accelerazione, segnato da instabilità e conflitti, hanno scelto di guardare non avanti, verso il progresso, ma indietro, verso la conservazione.
Potrà sembrare un dettaglio, ma questo cambio di prospettiva fa tutta la differenza: ci libera dall’attesa della mossa comunicativa giusta da parte del nostro partito di sinistra preferito e ci spinge a pretendere di più. Più sostanza nell’offerta politica, più elaborazione di proposte invece delle solite liti tra correnti, come quelle che paralizzano il Partito Democratico. Ma anche più consapevolezza dal nostro lato, quello della domanda: la possibilità che ciascuno di noi contribuisca a rendere il mondo meno frenetico, meno instabile, meno conflittuale. È un discorso estremamente complesso, che - ahimè! - dovremo riprendere. Ma un passo avanti lo abbiamo fatto: abbiamo sfatato il mito della comunicazione giusta come chiave interpretativa del problema. Non è poco.

Cose che
Ho ascoltato
Sono arrivato tardi rispetto alla data di uscita e l’ho ascoltato solo sabato mattina, mentre preparavo la colazione. Avevo gli auricolari con cancellazione del rumore di cui vi ho parlato nella scorsa newsletter e, forse proprio per questo, il disco mi è sembrato ancora più immersivo, oltre che chiarissimo nella sua direzione creativa. Ballonerism, il nuovo album di Mac Miller, non ha ricevuto un’accoglienza calorosa da critica e pubblico, mi pare, ma pazienza: un livello di coesione così alto tra produzioni, flow e testi è merce rara nel rap contemporaneo. Sul mio Musicboard ho scritto qualcosa in più al riguardo.
Ho letto
«Le stelle sono tante, milioni di milioni», cantava De Gregori negli anni Settanta. Lo sono anche le storie, milioni di milioni, ma qualche anno fa, quando ho scoperto quella del concerto di Colonia di Keith Jarrett, ho deciso, senza possibilità di ripensamento, che fosse la più bella di sempre. Questo articolo del Post la ripercorre a cinquant’anni da quell’evento incredibile.
Ho visto
Amiche e amici registi che leggete questa newsletter (che io sappia, solo uno di voi rientra nella categoria: ciao Gere!), lasciate che ve lo dica: il peggior torto che possiate fare ai vostri film è renderli didascalici. Se sono ben scritti, si raccontano da soli, senza bisogno di personaggi che esplicitino ciò che si può cogliere semplicemente seguendo l’intreccio con attenzione. Per Marielle Heller questo concetto non dev’essere chiarissimo, e il suo Nightbitch - che avrebbe potuto essere un’occasione per parlare di maternità con una buona dose di follia - scivola presto in un tono moralistico piuttosto insopportabile. Peccato, soprattutto perché il materiale di partenza - il romanzo di Rachel Yoder che mia moglie ha comprato e che presto le ruberò - sembra avere del potenziale. Due o tre dettagli in più sul mio Letterboxd.
Fine. Ci sentiamo quando avrò qualcosa da dire: potrebbe essere domani, potrebbe non essere mai più. Ciao!