Tutto il tempo che (non) abbiamo, l’aperitivo elettorale di Azione e il mio amico Franco che è andato a Sanremo
Direi che il titolo è abbastanza lungo ed esplicativo. Poi le cose che ho ascoltato, letto e visto nel periodo non collegato.
Quello che vedete qui sopra è un esperimento: siccome Substack permette di allegare una versione audio della newsletter, voglio leggervi il primo paragrafo di questo numero - paragrafo che ho intitolato Tutto il tempo che (non) abbiamo. Proviamoci, vediamo come viene.
Tutto il tempo che (non) abbiamo
È giovedì 20 febbraio, questo mese vorrei far uscire la newsletter almeno una volta, ma alla fine di febbraio mancano solo otto giorni. Mi torna in mente il titolo italiano di un film che ho visto al cinema un paio di settimane fa: Tutto il tempo che abbiamo, adattamento nostrano di We live in time. I titoli tradotti - spesso non letteralmente, come in questo caso - vengono pensati, immagino, per rendere i film stranieri più accessibili al pubblico italiano. Si tratta di una pratica che - chissà perché - non sempre viene adottata e che la maggior parte delle volte trovo - come dire? - pigra: davvero un titolo, per il solo fatto di essere in inglese, potrebbe scoraggiare qualcuno dal vedere un film?
In questo caso, però, devo ammettere che il titolo italiano ha stimolato una serie di ragionamenti dentro di me, soprattutto quando l’ho collegato a una scena del film. Ma forse vale la pena spendere due parole su questo film, anche se, a dirla tutta, non mi ha nemmeno entusiasmato. Sarò breve e farò spoiler, necessari al ragionamento che voglio sviluppare: lei e lui si incontrano (sarebbe meglio dire che si scontrano) e si piacciono. Lei chiarisce subito di non volere figli, mentre lui li vuole. Lei cambia idea e hanno una bambina. Poco dopo, lei scopre di avere un cancro alle ovaie e decide di dedicarsi anima e corpo al suo lavoro di chef. Lui le sta accanto, sostenendola fino a un’importante competizione culinaria, che lei abbandona a metà per trascorrere il tempo rimasto con lui e la figlia. (Adesso arriva lo SPOILER, ocio). Lei muore, lui si occupa della figlia da solo. Fine.
(Spoiler finito, potete tornare a leggere). In questo intreccio piuttosto prevedibile, la scena che, insieme al titolo italiano, mi ha fatto riflettere è quella in cui lui rimprovera lei perché lavora al posto di riposare e lei gli risponde con una frase che suona più o meno così: «Non voglio essere ricordata solo come la mamma morta di qualcuno».
Non so voi, ma io capisco perfettamente la posizione di lei. Ho smesso di lavorare, boh, una mezz’ora fa e subito mi sono messo a scrivere questa newsletter. A pochi metri da me c’è Laura, mia moglie, che avrebbe bisogno di un abbraccio perché soffre da tutto il giorno per i dolori mestruali. La mia gatta, anziana, non so per quanto tempo ancora sarà con me, e una coccola adesso potrebbe essere un modo per sfruttare al meglio il tempo che ci resta insieme. Poi ci sono i miei genitori, anche loro anziani, e sono certo che una telefonata per sapere com’è andata la loro giornata li renderebbe felici.
Continuo a dire che gli affetti sono la cosa più importante della mia vita, e allora perché, proprio ora, come tante altre volte, non mi sto dedicando a loro? Perché non voglio essere ricordato solo come il marito premuroso. O come il padrone affettuoso. O come il figlio presente. Voglio essere ricordato anche come quello di cui si dice: «Hai presente Stefano Cazzaro? Quello che scrive quella newsletter?». E magari, tra qualche anno, come quello che sui temi della newsletter ha scritto un libro, è stato intervistato, ha creato un podcast con un buon seguito.
Due dimensioni - da un lato quella privata, del marito premuroso; dall’altro quella pubblica, dell’autore di newsletter - che potrebbero convivere se non fosse per quella parola, quella che spicca nel titolo italiano del film da cui è nato questo ragionamento: il “tempo” di Tutto il tempo che abbiamo. Un tempo che in realtà non abbiamo, che in realtà non ho perché ho trentatré anni, un lavoro che mi occupa gran parte delle giornate, affetti che considero davvero la cosa più importante della mia vita, ma anche passioni a cui non voglio rinunciare: questa newsletter, il cinema, la musica, i libri. E in mezzo a tutto ciò, il mio corpo e la mia mente che ogni tanto crollano e mi chiedono di fermarmi.
Forse è vero che tradurre i titoli in italiano è spesso una pratica pigra, perché, anche in questo caso, il titolo originale coglie meglio la realtà delle cose. We live in time: qui la parola che spicca non è “time”, ma “in”. Viviamo ‘nel’ tempo e, proprio perché siamo immersi in esso, fatichiamo a guardarlo dall’esterno, a capire se lo stiamo davvero sfruttando al meglio. E a chiederci cosa, una volta che saremo usciti davvero dal tempo, rimarrà di noi e sarà ricordato.

L’aperitivo elettorale di Azione
Mentre scrivo queste righe, all’interno di Azione – il partito centrista e liberale di Carlo Calenda – si sta consumando un mezzo patatrac. Non so se i giornali ne parleranno, considerando le dimensioni del partito, e forse non dovrei parlarne nemmeno io, ma lasciatemi almeno spiegare perché lo menziono: due settimane fa ho partecipato a un loro aperitivo elettorale.
Si trattava di un evento organizzato a Treviso per sostenere la candidatura di Giulia Pastorella alla segreteria del partito. Da qualche tempo sto cercando di guardare al di fuori della sinistra tradizionale: il PD, con le sue infinite beghe interne, sembra incapace di uscire dal pantano; i partiti della sinistra più estrema, invece, non riesco a votarli, un po’ per lo snobismo di buona parte del loro elettorato – mi spiace generalizzare, ma questa è la mia esperienza – e un po’ per la loro ambiguità su temi come la guerra russa in Ucraina.
Guardando oltre la sinistra, ma mantenendo debite distanze dalla destra, ho incrociato Azione, che proprio in questi giorni si prepara a un congresso per eleggere il nuovo segretario o la nuova segretaria. I candidati sono due: l’attuale leader Carlo Calenda e la deputata Giulia Pastorella. L’idea di un contesto informale come un aperitivo elettorale, unita alla curiosità di esplorare nuove proposte politiche, mi ha spinto a partecipare.
Senza la pretesa di fare un reportage che non sarei in grado di fare, appena arrivato mi siedo a un tavolo dove tre persone, notando che sono solo, mi invitano a unirmi a loro. Nell’attesa dell’arrivo di Giulia Pastorella, scambio quattro chiacchiere con loro e apprendo che non conoscono la candidata: l’hanno sentita nominare, ma ignorano le sue posizioni sui temi centrali per il partito (tenetelo a mente, questo dettaglio, perché è fondamentale per il punto che voglio sottolineare).
Pochi minuti dopo, Giulia Pastorella arriva. Si avvicina ai tavoli per salutare i presenti e, quando arriva al mio, la donna seduta accanto a me le chiede: «Ma Calenda? Come ha preso la tua candidatura?». La domanda mi lascia interdetto. Mi aspetto quasi che Pastorella risponda con una versione diplomatica di: «Come vuoi che l’abbia presa? Siamo in democrazia. Voglio candidarmi alla segreteria del partito, mi candido, punto». Invece no. Pastorella risponde che inizialmente Calenda ci è rimasto male, ma poi ha capito e ora tra loro due c’è un clima sereno. Io la guardo con espressione sbigottita, tanto che me ne accorgo e provo a ricompormi. In che senso “ci è rimasto male”? Azione non è un partito liberale? Nel libero mercato politico di Azione non è contemplato il concetto di concorrenza?
Mentre rifletto su queste questioni di principio, che tanto di principio non sono, Pastorella comincia a tenere un discorso davanti a tutti i presenti. Parla di riorganizzazione del partito, e va bene: l’aperitivo elettorale è pensato soprattutto per gli iscritti, che vogliono sapere quale sarà il futuro dell’organizzazione a cui appartengono. Parla del posizionamento politico di Azione, definito come il partito degli imprenditori e non degli operai, e boh, mi chiedo, cosa avranno mai fatto di tanto sbagliato, ’sti operai? Parla di accordi con altri partiti, ma non con il PD, ché ci ha già pensato Renzi, a smarcarsi dal centro per tentare un improbabile ritorno a sinistra.
Passano dieci, venti, trenta minuti e Pastorella continua a parlare di processi interni, di strategie, ma i grandi assenti rimangono i contenuti. L’unico accenno concreto arriva quando tocca il tema della “libertà di scelta sui temi etici”, ma a quel punto, da attivista dell’associazione Luca Coscioni, sento un brivido corrermi lungo la schiena perché so bene che, in nome di quella stessa “libertà di scelta”, il PD ha spesso ceduto alle pressioni della sua base cattolica, soffocando molte iniziative che avrebbero potuto rappresentare una vera svolta progressista per il paese.
Stavo per sollevare questa critica, quando l’organizzatore dell’aperitivo annuncia che Giulia Pastorella deve lasciarci per un altro appuntamento elettorale. Saluti finali, qualcuno si ferma a bere uno spritz, io me ne vado con un pensiero fisso: le persone sedute al mio tavolo, che non conoscevano le posizioni di Pastorella, su cosa baseranno il loro voto al congresso? Sui processi per riorganizzare il partito? Su un genericissimo posizionamento come “partito degli imprenditori”? Sulle alleanze con questo o con quello? E i contenuti? Quando si comincerà a parlare davvero di contenuti, in uno scenario politico dove l’estrema destra di governo, sui contenuti, ha le idee chiarissime? E questo solo restando in Italia. Come la mettiamo, poi, con il presidente del paese più potente al mondo che sforna contenuti a ritmo industriale ogni giorno, poco importa se spesso sono lontani anni luce dalla realtà?
Qualche giorno dopo l’aperitivo ricevo una mail dall’organizzatore, che mi invita a unirmi alla community di Azione su WhatsApp. Un po’ per curiosità, un po’ per ingenuità decido di accettare e il caso vuole che, poco dopo il mio ingresso, un membro condivida un articolo sul tema del fine vita. Colgo l’occasione al volo per riaprire il discorso sulla “libertà di scelta sui temi etici”. Scrivo il mio messaggio, lo invio e aspetto. L’unica risposta che ottengo è un cuoricino, messo dalla stessa persona che aveva condiviso l’articolo.
Nel giro di poche ore il mio messaggio cade nel dimenticatoio, travolto dal patatrac di cui ho accennato all’inizio: due sostenitori della candidatura di Pastorella accusano Calenda di aver fatto iscrivere al partito persone con l’unico scopo di votarlo al congresso, così da neutralizzare il rischio rappresentato dalla sfidante. A questo punto la mia delusione raggiunge il suo apice: non solo l’assenza di contenuti, ma anche le dinamiche opache tipiche dei partiti.
Sono i giorni di Sanremo e, mentre ripenso all’aperitivo e al mio tentativo fallito di capire le posizioni di Azione su almeno un tema, una canzone si fa strada con insistenza nelle mie orecchie, nonostante io cerchi di evitare il festival. È quella dei Coma Cose, che nel ritornello cantano:
Ma tu volevi solo cuoricini, cuoricini
Pensavi solo ai cuoricini, cuoricini
Stramaledetti cuoricini, cuoricini
Che mi tolgono il gusto di sbagliare tutto
Non posso fare a meno di pensare a quel cuoricino lasciato al mio messaggio. Ma, a differenza di quanto cantano i Coma Cose, qui nessuno ha perso il gusto di sbagliare tutto. Anzi, tra processi interni fumosi, posizionamenti politici discutibili e accordi fragili, la sensazione è che stiamo sbagliando proprio tutto, mentre le destre continuano a fare centro, colpo dopo colpo.
Il mio amico Franco è andato a Sanremo
Quando questa newsletter arriverà nelle vostre caselle, il chiacchiericcio su Sanremo sarà ormai un ricordo lontano. Io, Sanremo, tendenzialmente non lo guardo. Magari accendo la TV, do un’occhiata per qualche minuto, ma poi spengo, infastidito da quell’atmosfera nazionalpopolare che proprio non sopporto. Devo però confessare una cosa che, forse, è ancora più controversa di guardare Sanremo: apprezzo Jovanotti. O, quantomeno, apprezzo alcune delle cose che ha fatto e che continua a fare. Quest’anno, per esempio, era l’ospite della prima serata, e la mattina dopo sono andato su RaiPlay per recuperare i momenti in cui era sul palco. Ed è lì che Jovanotti mi ha sorpreso: ha parlato di Franco Bolelli. Non solo ne ha parlato, ma ha persino letto un passaggio da uno dei suoi libri.
Per me è stato come un tuffo nel passato. Sentire parole come “slanci”, “azione energetica” e “vitalità del corpo” mi ha riportato a quando avevo vent’anni e sognavo di fare quello che faceva Franco: scrivere per i giornali, parlare in pubblico. Così andavo a Milano e incontravo Franco – proprio lui – da Cucchi, la pasticceria che era diventata il suo quartier generale. Ci parlavo per un’ora, a volte due, e ogni volta mi sembrava di avvicinarmi un po’ di più al momento in cui i miei sogni si sarebbero avverati.
Poi le cose sono andate come sono andate. Oggi analizzo dati per un’agenzia di marketing, non scrivo per i giornali, parlo raramente in pubblico, e ammetterlo fa un po’ male. Ma quel periodo rimane straordinario, perché straordinario era il fatto che un filosofo con il suo livello di notorietà – certo, non era Galimberti, ma scriveva per testate nazionali e organizzava festival che attiravano centinaia di persone – trovasse il tempo di ascoltare con attenzione un ragazzo che aveva meno della metà dei suoi anni e condividesse con lui consigli e opinioni sugli stessi temi di cui parlava nei suoi libri.
Sapevo, allora, che quando sarei cresciuto, quando quei sogni avrebbero potuto trasformarsi in realtà, Franco probabilmente non sarebbe più stato tra noi. E così immaginavo l’epitaffio che avrei scritto su di lui per una grande rivista: avrei detto che esistono tre Franco Bolelli - l’essere umano, il public speaker e l’autore di saggi filosofici. E che, se negli ultimi anni come autore e public speaker cominciava forse a essere un po’ ridondante, come essere umano rimaneva straordinario.
E fa sorridere che, in una newsletter in cui parlo di come spesso non ci accontentiamo di noi stessi come persone e aspiriamo a essere riconosciuti come figure pubbliche, io sia tornato proprio qui, al valore che ha avuto per me qualcuno non come figura pubblica, ma come persona.
Cose che
Ho ascoltato
A volte le deluxe version sono un espediente banale per aumentare gli streaming di un artista, mentre altre volte riescono davvero ad arricchire l’esperienza di ascolto di un album: è il caso della deluxe version dell’ultimo disco di JPEGMafia, che non è stata intitolata Deluxe Version ma DIRECTORS CUT, tutto in maiuscolo e senza apostrofo. Ma ancora di più è il caso della deluxe version dell’ultimo album di SZA, che cambia addirittura nome e da SOS diventa LANA.
Ho letto
Da qualche mese sto leggendo due o tre libri, come si suol dire, a spizzichi e bocconi: Queer di William Burroughs, in attesa di vederne la trasposizione cinematografica firmata da Luca Guadagnino; Non dirmi che hai paura di Giuseppe Catozzella, che ho iniziato solo perché pareva dovessi parlarne a un evento pubblico, peccato che l’organizzatore sia sparito nel nulla; Come si guarda un film di Angelo Moscariello, che mi è stato regalato da un amico spesso citato in questa newsletter (ancora una volta, ciao Gere!) e che mi sta offrendo spunti interessanti, come l’uso della colonna sonora in contrapposizione alla colonna visiva. Avete presente la scena iniziale di Shining? Ecco.
Ho visto
Uno dei film più belli di sempre e uno dei film più brutti di sempre. Trovate entrambi su Amazon Prime Video, ma sapete già quale vi consiglio di guardare; dura anche 9 minuti in meno.
Fine. Ci sentiamo quando avrò qualcosa da dire: potrebbe essere domani, potrebbe non essere mai più. Ciao!